dal Messaggio della Santa Casa febbraio 2012
Nella Basilica di Loreto c'è anche la Cappella... Siciliana
di Domenico Consoli
Molti lo ignorano, ma la Sicilia è ben presente, all’interno del santuario di Loreto, in una Cappella che potrebbe esserle dedicata. Questa Cappella è conosciuta col nome di “Cappella del Crocifisso”, grazie ad un meraviglioso Cristo in croce che la identifica. È proprio per quella pregevole scultura lignea, è proprio per quel Cristo sofferente che sembra guardarti qualunque sia il lato da cui tu lo osservi, che questa Cappella potrebbe essere definita “Siciliana”: quel crocifisso è infatti opera di un “maestro” siciliano. «OPUS E INNOCENTI A PETRALIA….», si legge ai piedi della croce. «Lavoro del petralese frate Innocenzo», al secolo Giovanni Calabresi, nato a Petralia nel 1592 e morto nel 1648, probabilmente a Malta, ove scolpì il suo ultimo crocifisso. Il pellegrino siciliano che giunge a Loreto da Catania rivede, in quel crocifisso, il crocifisso della chiesa francescana della sua città dedicata a Santa Maria di Gesù. II palermitano ritrova il crocifisso di Misilmeri o di Polizzi Generosa. Il trapanese riconosce il crocifisso della Chiesa Madre di Salemi. Il pellegrino di Monreale riscopre il crocifisso della chiesa di San Castrense. Il messinese riammira crocifissi della Chiesa Madre di Furnari e della Chiesa Madre di Brolo.
Secondo la leggenda, frate Innocenzo, ancor giovinetto ed ancora chiamato Vanni (Giovanni), tratto a riva un grosso tronco trascinato dalle acque del fiume Belice, affermò: «Sarà la mia espiazione e la sua (del tronco) gloria». Cominciò quindi a lavorare quel legno per trarne fuori un Cristo in croce, ma non era capace a dare lineamenti al volto. Stanco e sconfortato, Vanni si addormentò. Sognò angeli che pareva lo aiutassero a scolpire e levigare ancor meglio quel tronco. Al risveglio vide il crocifisso completo «al natural color» e con «un bel volto che pace e perdono implora» (1). Leggenda a parte, proprio il sofferente e bel volto del crocifisso, la posizione del capo reclinato sulla spalla destra, la spina o le spine (in alcuni crocifissi sono due, come in quello di Loreto) che feriscono il sopracciglio sinistro, sono gli elementi caratterizzanti una incontestabile unità iconografica sempre presente, quasi firma autenticante le “opere” del maestro siciliano. Frate Innocenzo, oltre che abilissimo, era veloce nel suo lavoro. Sembrava veramente essere aiutato dagli angeli: gli erano sufficienti 6/8 giorni per scolpire, decorare cromaticamente ed ultimare i suoi crocifissi, tutti a grandezza quasi naturale.
La drammaticità e la bellezza delle sculture di Innocenzo varcarono i confini di Petralia prima e poi della Sicilia. Nell’Isola tutti i conventi francescani ambivano possedere un’opera del maestro e ciò spiega i numerosi crocifissi presenti in vari conventi. Fu un confratello francescano, arrivato da Roma in Sicilia per predicare la “Quaresima”, che, avendo avuto modo di conoscere il frate e ammirarne le sculture, lo invitò ad un soggiorno nella penisola. Aseguito di tale invito troviamo frate Innocenzo dal 1636 al 1638 a Roma, nelle Marche ed in Umbria. In questi tre anni, quasi a conferma della sua velocità di esecuzione, Innocenzo da Petralia scolpì in Umbria due crocifissi, uno a Gubbio ed uno ad Assisi; a Roma un crocifisso per la chiesa di San Francesco a Ripa (oggi visionabile a Porretta) e, nelle Marche, ben otto crocifissi: a Pesaro, a Loreto, a Senigallia, ad Ascoli, a Gradara, a Cagli, a San Lorenzo in Campo e a Fabriano. I crocifissi di Loreto e di Assisi, molto simili, furono scolpiti dal maestro nello stesso anno (1637), come attestano le scritte ai piedi delle croci che confermano la data di esecuzione delle opere. Per ambedue le sculture fu utilizzato legno di pioppo prelevato nella zona (2). L’uso di tale legno dà ai due lavori un colore che tende al bruno, contrariamente agli altri crocifissi in cui il corpo di Cristo è d’un pallido biancore quasi marmoreo che - a nostro sommesso parere - sottolinea maggiormente la gelidezza cadaverica. Il Concilio di Trento (1545-1563), con riferimento a quanto decretato sulle “sacre immagini”, ed il crocifisso della cattedrale di Trento (3) non furono certamente estranei alle cognizioni di frate Innocenzo. Il volto reclinato sulla spalla destra e la torsione delle gambe, fissate alla croce da un unico chiodo, ne sono in qualche modo riprova.
Ciò che però maggiormente ispirò il frate siciliano furono le rivelazioni teologiche di santa Brigida (4). La mistica così descrisse il Cristo della Passione: «il sangue che sprizza dalla corona di spine inonda il volto di Cristo, il ventre incavato toccava la schiena come se non avesse più interiora, il petto tutto straziato … le spalle, i gomiti ed i polsi tesi fino alla dislocazione, il sangue dalle mani gli colava lungo tutte le braccia … il torace rialzato, stante al di sotto una depressione profonda … il corpo tutto ricoperto da piaghe, lividure, macchie nere, turchine e gialle, le gambe lunghe e garretti nervosi, le mani belle con dita lunghe, il capo di belle proporzioni non troppo grosso, il volto di un ovale purissimo … i capelli di un bruno dorato e ricadenti sulle spalle, la barba non lunga ma appuntita e separata in due sotto il mento … le ossa delle costole fortemente rilevate e in certi punti messe a nudo». Tutte, proprio tutte queste caratteristiche descritte dalla mistica santa Brigida puntualmente si riscontrano nelle sculture lignee di Innocenzo. In alcuni crocifissi (Loreto, Assisi, Senigallia) i pollici del Cristo risultano cadenti sul palmo della mano, come certamente furono per la recisione dei tendini a seguito delle trafitture dei chiodi, ed in tutti i crocifissi il corpo del Cristo, nella realtà certamente nudo, è ricoperto da un corto e ben modellato perizoma di tela bianca sorretto da una corda nera (5) che fa intravedere la coscia destra.
Il crocifisso di Pesaro è l’unico in cui la tela del perizoma è attraversata da motivi ornamentali color nero. Il corpo dei crocifissi, straziato sino all’eccesso, nelle sculture del “maestro siciliano” comunica sofferenza. Il sangue abbondante e le ferite numerose ed aperte, rese realistiche da accorgimenti particolari usati dal frate siciliano, comunicano talvolta, più che pietà, senso del macabro e realismo raccapricciante. Frate Innocenzo, per rendere il più possibile percepibile la passione e la sofferenza, usò ceralacca e miscuglio di resine per il sangue fuoriuscente, spago di varie sezioni inglobato con la mestica per le vene e i tendini, pergamena e colle animali in prossimità delle lacerazioni. Queste tecniche conferiscono ai crocifissi un agghiacciante realismo (6) e un senso di drammatico e terrificante dolore, che talvolta urtarono la sensibilità dei fedeli.
La esasperata drammaticità delle sculture lignee non sempre fu accettata e spesse volte divenne causa di spiacevoli discussioni, inducendo alcuni conventi a spostare i crocifissi in luoghi appartati e meno visibili. Alcuni priori, per non sconvolgere la pietà popolare, ritennero opportuno sistemare le opere dello scultore petralese dalle chiese all’interno dei conventi (crocifisso di Assisi). Altri decisero di rimuoverli dagli altari centrali per collocarli sugli altari laterali (Pesaro e Senigallia); altri ancora vollero trasferire i crocifissi in altre regioni, come nel caso di quello di Roma (in San Francesco in Ripa), ceduto dal padre provinciale di quel convento al parroco di Porretta Terme (80). Nello stesso santuario di Loreto il crocifisso ebbe varie sistemazioni, sempre in posizioni quasi appartate, prima dell’attuale ottima definitiva sistemazione (7) .
Patimento, dolore, morte e sguardo di Cristo che incontra quello di chi lo osserva è l’evidenziatore dell’arte ed ancor più della fede del frate siciliano che: «Forsi, cù Diu cì parrava / e li sua carni marturiava / pi stu munnu ncatinatu / tuttu chinu di piccati» (8) .. «Forse con Dio ci parlava», recita la poesia siciliana… Viene da sospettare che, più degli angeli della leggenda che si sostituirono al giovane Vanni per render nel legno il volto di Gesù, sia stato lo stesso Cristo a “dare una mano” ad Innocenzo per far affiorare dal legno le ferite, il patimento ed il tormento della “Passione”. D’altronde, chi meglio del “vero” Crocifisso avrebbe potuto aiutare e guidare lo scalpello di Innocenzo? Alla fin fine erano ambedue “colleghi”. L’Uomo dei dolori, il vero Crocifisso, era figlio legale d’un falegname, non a caso lui stesso falegname e quindi pratico nel lavorare il legno e pronto a trasmettere la sua arte manuale. Il figlio del falegname non aveva alcuna remora del tipo “gelosia del mestiere”. Come avrebbe potuto averla? Era disponibile perciò, ad istruire, insegnare e condurre per mano chi con competenza e amore lavorava il legno. Se, poi, con Innocenzo avesse avuto qualche difficoltà avrebbe potuto lui stesso chiedere la collaborazione di un grande ed apprezzato “maestro d’ascia” suo padre legale (o putativo) Giuseppe